Ri-crearsi nell'anzianità

Caterina Wolf

Albergo Pestalozzi, Lugano – 26 ottobre 2017
Ri-crearsi nell’anzianità
Relazione di Caterina Wolf

Eccoci qui. Ci ritroviamo con un tema e con una realtà che calzano a pennello. Ava Eva si è re-inventata, e io sono stata chiamata a parlarvi di ri-crearci nell’anzianità. Penso che quello che avrò da dirvi lo sappiate già, ma cercherò di raccontarlo con parole, e confusione, mie: ed è questa la ri-creazione.

Nessuno di noi crea dal nulla: forse Dio, quanto a noi partiamo sempre da qualcosa che c’è già. La creatività non riguarda ovviamente solo chi produce arte, anche se condivide con questi la capacità di innovare, di immaginare, di inventare soluzioni nuove a problemi vecchi, la curiosità, e in ogni caso la disponibilità al cambiamento.

Quanto a noi, variamente anziane, ci siamo ricreate seguendo il tipico percorso che porta dalla nascita all’infanzia, dall’adolescenza alla maturità prima e seconda, fino all’anzianità. Un lungo percorso di acquisizioni e di perdite, di cambiamenti in contesti sempre nuovi, in un tempo, il nostro, che ha conosciuto un’accelerazione mai conosciuta prima.
E ci siamo ri-create, consapevolmente o meno, seguendo processi biologici innati, seguendo modelli antropologici e culturali, e in seguito, più o meno consapevolmente, secondo i nostri caratteri, interessi, scelte, ecc., più personali.

Con noi, naturalmente, ha continuato a ri-crearsi anche il mondo, confrontandoci con novità e problemi del tutto inediti e che spesso ci trovano impreparate. Il mondo si è aperto secondo ritmi vertiginosi e le trasformazioni che sono sopravvenute hanno prodotto una complessità che fatichiamo a decifrare.

Cosa significa allora ricrearci nell’anzianità? E sappiamo cosa sia l’anzianità?
Come ben dice una veterana del femminismo, Betty Friedan, la nostra è “un’età da inventare”. Perché? Perché non abbiamo modelli per orientarci: non quelli delle nostre madri vissute in un mondo troppo diverso dal nostro, secondo realtà e norme sociali e culturali che da allora hanno conosciuto cambiamenti epocali.
Persino la nostra ‘natura’ ha seguito questi sviluppi. Non solo siamo più longeve, più libere di scegliere per noi stesse, grazie anche alla conquista di una certa autonomia economica; ora non dobbiamo più sottostare a un rigido ‘destino’ biologico, abbiamo persino la possibilità di ‘forzare’ la natura e scegliere se, come e quando diventare madri.Non sto purtroppo parlando della maggior parte della popolazione mondiale, che ancora deve lottare per la sopravvivenza, per i diritti fondamentali, e non solo quelli di genere.

Quindi, rispetto ai cambiamenti che hanno segnato il nostro tempo e il contesto nel quale siamo cresciute, cosa significa per noi ‘anziane’ RI-CREARCI?

Avvicinandomi agli studi sull’anzianità ho notato una grande carenza di attenzione rispetto proprio alle differenze di genere.
Partendo ora da un punto di vista psicologico, che è quello che privilegio, è proprio sull’anzianità al femminile che vorrei riflettere, per considerare il vissuto soggettivo, piuttosto che le statistiche che fanno dell’anzianità uno stato - e un problema - con tanto di data di nascita, e di morte, di costi sociali, e così via. Partendo dalla mia prospettiva, l’anziana è, in primo luogo, un soggetto, protagonista di un processo in divenire, capace di trasformarsi e di trasformare la realtà in cui opera. E subito una cosa mi sembra acquisita: le donne ‘anziane’, non si vedono più come un ‘problema’ sociale: sanno di essere la ‘soluzione’
di molti problemi sociali, una risorsa per l’economia, per esempio, in quanto garante di cura (gratuita) per i grandi anziani bisognosi di aiuto, e per bambini i cui genitori lavorano. Le anziane sono una risorsa per l’educazione e per la trasmissione di saperi, di competenze, come pure per nuove declinazioni dell’affettività dove, nella relazione nonne/nipotini lo scambio di conoscenze a volte segue vie inverse, e sono i nipoti a insegnare alle nonne, per esempio la tecnologia.

Ri-inventarci significa anche sottrarci alle generalizzazioni e ai pregiudizi sull’anzianità che partono spesso esclusivamente da studi focalizzati sull’uomo, penalizzando la donna. (Un esempio fra tanti: la recente scoperta che la farmacologia, sperimentata su campioni esclusivamente maschili, non è efficace o è persino dannosa per la donna).

Ma cos’è la RICREAZIONE? Sto tornando indietro nel tempo per ricordarvi un’esperienza che voi tutte avete vissuto e che vorrei tanto poteste rivivere ancora adesso nell’immaginazione:
Ecco siamo a scuola, ancora bambine, sedute composte ai banchi, con i nostri grembiulini tutti uguali e cerchiamo di scrivere in bella scrittura, uguale per tutti, il compito che abbiamo davanti. Cerchiamo di star ferme, di non fare macchie … e… improvvisamente, sono le 10! suona il campanello!!! RICREAZIONE !!!! Lasciamo i quaderni e l’aula e ci precipitiamo fuori… Ricordate?
Il sollievo, la sensazione della libertà riconquistata, un ritorno a noi stesse vocianti, ai giochi, alle amicizie, alla condivisione del panino, magari ai litigi. E ciascuna a suo modo, ciascuna con la sua unicità, con l’inconfondibile tratto del suo CARATTERE, che, secondo molti, tra cui l’analista James Hillman, è la forma della nostra anima e ci accompagna e si rafforza, nel bene e nel male, per tutta la nostra vita. Siamo, per usare una metafora, come un calzino. Come ogni calzino, che appena indossato, prende la forma del nostro piede e, con l’andar del tempo comincia a logorarsi, e poi a sformarsi un po’, fin che subentrano i primi buchi, cui fanno seguito i rammendi. E di buco in buco, e da un rammendo all’altro, quel calzino si RI-CREA. E se poi alla fine sembra quasi irriconoscibile, quel calzino rimane pur sempre quello stesso nostro calzino.
Così siamo noi che nel corso della nostra esistenza veniamo educate, modellate, o ferite, ma anche trasformate e ricreate dalle nostre esperienze, da successi, acquisizioni e fallimenti, da perdite e riparazioni, ma restiamo inconfondibilmente noi stesse, siamo sempre noi, abbiamo dato forma e conservato il nostro essere originario e unico. Come l’eroico calzino.

L’anzianità è appunto uno di quei momenti in cui sentiamo il bisogno di ripercorrere la nostra vicenda di calzini che si ricreano, di dare un ordine e un senso al nostro vissuto, di ridar corpo (ora che il corpo ci ricorda la nostra impermanenza), di ri-membrare, di riportare in vita, e raccontarci ciò che siamo state, per capire ciò che siamo.

L’anzianità in questo senso io la vedo un po’ come l’inizio di una ri-creazione permanente.
Ormai non ci tocca più, tornare in aula, fare le brave e prendere un bel libretto, non ci tocca più compiacere i maestri, adattarci a convenzioni e criteri collettivi. Non ci tocca il ritmo incalzante di un passaggio fra adattamento pubblico e vita privata. Non c’è più l’obbligo, ma semmai la scelta, di tornare in aula, perché ormai abbiamo frequentato a lungo la scuola della vita, e adesso quando interroghiamo il ricco bagaglio di esperienza che abbiamo accumulato, ognuna di noi diventa sia l’allieva che la maestra di se stessa.

E sarebbe bello se ognuna di noi, giunta a questo punto di una lunga e ricca esperienza, sapesse guardare con benevolo interesse, indulgenza, e orgoglio – magari anche un po’ di humor – alla strada fatta. Anche se fatta a “bütt e scarpüsc”. A me sembra che alle donne della mia, e della vostra generazione, manchi troppo spesso questa capacità di darsi un riconoscimento affettuoso, empatico e giusto. Si tratta di una difficoltà che si riassume nel problema di un’autostima, nata carente nell’era del patriarcato, ma che andrebbe finalmente ‘rammendata’! Per fortuna, anche a questo servono le amicizie che nell’anzianità hanno il tempo di rinnovarsi e approfondirsi. Non basta infatti pensare e rivisitare la vita vissuta nell’esercizio solitario dei ricordi: “chiunque io sia stata in passato, è importante che io, anziana, mi lasci coinvolgere nel mondo, e mi manifesti per quello che sono adesso”. Così si vive la contemporaneità.

Penso che una delle grandi conquiste delle ‘anziane’ sia quella imparata negli anni giovanili del femminismo, quella di condividere con altre donne, ribellioni, aspirazioni e conoscenza di loro stesse. Questo è un fenomeno che risorge ovunque fra le ‘anziane’ ed è appunto un momento che sottolinea l’esigenza di re-inventarsi partendo da esperienze condivise, da quel lungo percorso di vita capace di dar voce, non alla conformità, ma alla valorizzazione delle differenze, all’unicità di ciascuna che si vede con gli occhi dell’altra e che nell’altra si ri-conosce. Ed è particolarmente toccante quando questo si verifica a distanza di generazioni, e dal profondo del tempo risorge e si ri-crea.

A questo aspetto dell’anzianità femminile, si aggiunge quello dei rapporti intergenerazionali che nell’anzianità si fanno spesso più intensi, vuoi per necessità, vuoi per piacere. Non solo le anziane sono spesso chiamate a prendersi cura dei più anziani, ma si avvicinano anche ai figli che si erano allontanati, giustamente, per creare il loro nucleo famigliare. Ora, soprattutto le figlie, che spesso hanno un lavoro e bambini piccoli, ricorrono volentieri all’aiuto delle nonne. E chi di voi ne ha esperienza sa che bagno di vita, e non solo di fatica, sia questa riscoperta dell’infanzia. Che regalo poter vedere il mondo e noi stesse con gli occhi del bambino che vede per la prima volta, che scopre il mondo, e scoprendolo lo ri-crea. (Questo il senso che immagino avesse per Picasso l’aspirazione a tornare a disegnare come un bimbo).

La vera scoperta, non consiste nella conquista di nuovi mondi, ma nell’imparare a guardare quello vecchio con occhi nuovi, quelli dell’esperienza acquisita. Ed è in questo territorio nuovo che le nonne si ri-creano, dove diventa possibile riscoprire – insieme – la mamma e il bambino che si è stati, dove forse la nonna intuisce in sé l’unità e la co-presenza di tutte le età della donna.

L’anzianità di oggi conosce tante nuove opportunità per aprirsi al mondo; ne è un esempio proprio questa nostra AvaEva che promuove l’aggregazione creativa delle anziane, la condivisione delle loro esperienze e la ricerca di esperienze e conoscenze nuove, per esempio nell’ambito dell’abitare, o per riflettere su quel tabù culturale che è il nostro destino mortale, o per tornare in modi più consapevoli alla natura, per proteggerla e per gioirne. Penso che come non mai, noi anziane siamo golose di nuove esperienze e di nuovi saperi. Non per nulla, per es. le aule dell’Uni 3 sono frequentatissime, soprattutto da donne anziane, e così i viaggi culturali alla scoperta di città e monumenti antichi. Perché l’anziana per ri-crearsi sente anche il bisogno di ritrovare o conoscere le sue radici, la sua cultura, la sua storia. Ha bisogno di andare in profondità, e non di rimanere in superficie a raccogliere informazioni che non le servono. Torna a scuola, non più per obbligo ma per libera scelta, seguendo le sue singolari inclinazioni, dal giardinaggio, alle erbe che curano, alla creazione dei mandala, alla filosofia.

L’anzianità, questa ricreazione permanente – per come la vedo io, lo avrete capito –, è caratterizzata da un aspetto psicologico di grande importanza: un fondamentale cambiamento di prospettiva. Questo ce l’ha segnalato il grande psicologo analista svizzero C.G. Jung. Lapidariamente, ecco la scoperta che ci interessa: abbiamo passato la prima metà della nostra vita cercando di adattarci al mondo; nella seconda metà dobbiamo imparare ad adattarci a noi stessi. Non so se la citazione sia precisa, ma il succo è questo. Del resto Jung era anche convinto che “il massimo potenziale di crescita e autorealizzazione si manifestasse proprio nella seconda metà della nostra esistenza”.
Quindi se fino al sopraggiungere di questa fase, il nostro Io era proiettato verso il fuori – per trovare il suo posto, e realizzare scopi, desideri, e ambizioni, secondo le regole e le convenzioni collettive –, nella seconda metà della vita l’orientamento verso l’esterno cambia qualitativamente; i valori e i riti collettivi perdono d’interesse. Il bisogno di affermare il nostro Ego si placa, diventa più importante capire in profondità il senso di ciò che siamo e abbiamo vissuto, non unicamente da una prospettiva individuale e personale, ma più aperta a ciò che è universalmente umano. Abitiamo la nostra interiorità, con il bisogno di imparare a capire, e forse ri-scoprire, i valori a cui teniamo e che danno un senso alla nostra vita, alle nostre relazioni, e per meglio decifrare quello che vogliamo, o non vogliamo, essere. Penso che anche da questo punto di vista l’esercizio di cura che la donna, volente o nolente, ha praticato da sempre, sviluppando empatia e compassione per le vicende umane, faciliti questo passaggio a una dimensione più spirituale e autentica nella sua relazione con il mondo.

Non voglio certo affermare che questo ritorno a una realtà soggettiva più autentica, sia un ritorno al paradiso terrestre, perché la fase che comincia con l’anzianità coincide anche con la scoperta di problemi e limiti inediti, e spesso dolorosi, in molti ambiti sociali e intimi. Penso per es. ai problemi di salute, o economici, ai compiti di accudimento spesso faticosi. Penso anche alla solitudine di tante anziane che deriva da lutti o separazioni non volute. Qualcuno, forse sarcasticamente, mi diceva: hai visto? Gli uomini non muoiono mai soli. Questo perché le mogli sono in genere più longeve, o perché le compagne sono molto più giovani. Un vedovo di solito si affretta a risposarsi, alle donne succede raramente. Come mai?

Qui ci sarebbe da riaprire una nuova grande riflessione, sull’amore e la sessualità, riassunti nella prospettiva più adulta dell’INTIMITÀ. E sulle differenze di genere in quest’ambito. Siccome il tempo è poco, mi limito a suggerirvi l’esempio che trovate in un romanzo che forse avete già letto: “Le nostre anime di notte” di Kent Haruf (ed. NN). Uscirà presto la versione cinematografica con due grandi anziani che conosciamo bene: Robert Redford e Jane Fonda. Questo è un toccante esempio di come si declini l’intimità nell’anzianità, un processo di profonda e sincera apertura all’altro, con il coraggio di rompere schemi e pregiudizi per ricreare la relazione profonda e l’amore, anche oltre la cruda sessualità. Nel romanzo tutto questo è promosso dall’audacia con la quale la protagonista si rischia per proporre qualcosa di nuove e inaudito, ma anche della capacità dell’uomo di saperlo apprezzare e condividere.

Ciò mi induce a pensare, un po’ maliziosamente, che l’anziana spesso sa essere coraggiosa e disinibita quando si tratta di rompere schemi e pregiudizi sociali, proprio perché dagli schemi e dai pregiudizi sociali, di stampo maschilista, la donna è stata spesso penalizzata, discriminata, e/o insufficientemente gratificata. In questo senso, quindi, sfidando le regole non ha poi tanto da perdere. Del resto, come abbiamo visto, la sfida alle convenzioni penalizzanti, è un’acquisizione, tra le tante, che si è guadagnata in gioventù, quando ha lottato con coraggio e insolenza per i suoi diritti, mai veramente realizzati, ma neppure accantonati. Pure questi da Ri-creare, con criteri nuovi, meno antagonistici forse, e più orientati verso una conciliazione creativa. Come accade in questo originale romanzo.

Uno dei grandi temi dell’anzianità, il CORPO, meriterebbe una riflessione approfondita, e proprio dal punto di vista del femminile, perché anche qui le differenze di genere ovviamente sono importanti. La donna che inizia l’anzianità, si confronta da varie prospettive con il corpo che si trasforma. Perché non è coinvolto solo l’aspetto fisiologico, come processo naturale e oggettivo, ma anche l’aspetto culturale e simbolico. Anche in questo caso posso solo accennare alla problematica. Del processo naturale fisiologico conosciamo tutte qualche caratteristica: dalla perdita di energia, di tonicità, di usura, fino alla malattia debilitante, ecc. Ma occorre tener conto anche dell’aspetto psicologico dell’anzianità del corpo, perché è più subdolo e ha le sue radici nella nostra cultura. La cultura nella quale siamo cresciute, e che ci assale da tutte le parti con televisione, pubblicità e relazioni sociali ecc., ci vuole tutte giovani, efficienti, disponibili, e belle. La cultura consumistica e narcisistica, che purtroppo, senza rendercene conto, abbiamo in qualche modo interiorizzato, rischia pericolosamente di farci sovrapporre e confondere IMMAGINE e IDENTITÀ. E allora? Cosa ce ne facciamo dell’IMMAGINE che ci viene incontro ogni mattina dallo specchio? Sono io quella? Spesso nell’anzianità, avvertiamo uno scollamento profondo fra ciò che vediamo e ciò che sentiamo di essere. L’immagine che ho di me stessa, quella che sento di essere, la mia IDENTITA’ non può certo esprimersi o rappresentarsi con il mio riflesso sulla superficie dello specchio. E allora mi chiedo, cos’è la mia età, cos’è il mio tempo? E forse questa è l’occasione per tornare alla scoperta già rilevata a proposito delle relazioni intergenerazionali: la coesistenza in me di tutte le mie ETÀ. A seconda delle circostanze, del momento, del mio umore, dei miei desideri, può prevalere la qualità di una fase, che non è quella dell’oggi: per es. l’intensità del sentire dell’adolescenza, la capricciosità o lo stupore dell’infanzia, la saggezza dell’antenata percepita nella nonna, e così via. Questo per dire che l’esperienza vissuta lascia sempre delle tracce.
Ma per tornare alla difficoltà di confrontarci con la nostra immagine di oggi, penso che, certo, un po’di humor possa servire, ma sicuramente, e molto più profondamente, serve la capacità di isolare l’immagine superficiale – percepita con l’occhio contaminato dai giudizi e pregiudizi culturali che ognuno, credo, inconsapevolmente ha assimilato –, per vedere, ‘oltre’ l’immagine congelata nell’attimo, il riassunto di una vita. Vale a dire ri-creando il percorso che riassume in un volto tutto il pathos dell’esistenza. Forse non ci libera da una certa nostalgia per ‘come eravamo’, ma ci permette di ri-creare il nostro viso con un lifting dell’anima, oltre ideali stereotipati, o chirurgie estetiche. È quello che hanno fatto i grandi artisti che ci hanno mostrato la straordinarietà di ogni vita e del destino umano, nella verità di un volto percepito con lucida profondità ed empatia. (Penso sempre con commozione all’ultimo autoritratto di Rembrandt, dipinto poco prima della morte.)

Ho scoperto con sorpresa che spesso sono proprio i nostre LIMITI a renderci più creative, e di questi l’anzianità ce ne regala tanti! A questo proposito ci sono molte scoperte che possono confortarci. Ci vengono stavolta dalle neuroscienze. Perché le neuroscienze in anni recenti, si sono molto interessate al cervello degli anziani, e proprio per quanto concerne la creatività. Si stanno infatti scoprendo molte nuove risorse del cervello anziano; in modo particolare, che l’anziano possiede le caratteristiche del ‘creativo’, più che non i più giovani. E torno a ricordare che per creativo non si intende solo chi produce arte, ma creativa è prima di tutto, la capacità di cambiare, di trovare soluzioni nuove e originali, di rompere schemi, di vedere le cose con occhi nuovi, di usare l’immaginazione, di ‘osare’, di re-inventare.

Perciò non stupisce, la longevità creativa di una Levi Montalcini, o di tante artiste e scrittrici che approdano ai loro migliori risultati nell’anzianità. E ovviamente, non solo donne. Recentemente mi ha incantata il nostro ultimo premio Nobel, quel bellissimo e ‘normale’ anziano tra i suoi studenti, in camicia con le maniche arrotolate e i sandali ai piedi, pronto a recarsi al consiglio comunale del suo paese per sostenere il suo gruppo socialista, prima di recarsi a Oslo a ricevere il prestigioso riconoscimento. Esprimeva bene, a prescindere dall’eccezionalità del suo talento, quella freschezza, quella capacità di condividere senza formalismi stantii, una scoperta nata da intuizioni precedenti, interrogate con pazienza, e grande immaginazione, sfidando i rischi del fallimento possibile, per approdare a una nuova visione del cosmo.

A prescindere dagli esempi d’eccezione, la cosa riguarda anche noi comuni mortali anziane. Come mai, secondo le neuroscienze, il cervello dell’anziano è particolarmente creativo, plastico e non atrofico come si tendeva a pensare? Sono proprio i ‘difetti’, o i limiti, a venirci in aiuto, sollecitandoci a trovare soluzioni nuove, per andare incontro al cambiamento. Esempi banali: perdiamo le parole? Bene, impariamo a girarci in giro e a trovare espressioni equivalenti, o ci facciamo furbi e cambiamo discorso. Oppure, rinunciando al bisogno di ‘far bella figura’, ci presentiamo allegramente con la nostra nuova realtà. Non riconosciamo la persona che ci viene incontro? O lo diciamo senza preoccuparci della ‘figuraccia’, o mettiamo in scena una recita convincente e ci divertiamo.
Sappiamo che nell’anzianità diventiamo più distratti, la nostra attenzione non è più tanto focalizzata, tendiamo a divagare: secondo gli studi sul cervello ‘anziano’, questo comporta che, proprio grazie alla nostra scemata attenzione focalizzata, l’orizzonte si apra e si faccia più vasto, includendo un maggior numero di informazioni, nuovi aspetti del problema. Questo promuove e sollecita nuove associazioni, crea nuove sinapsi e, per concludere, soluzioni più originali e innovative. Anche questo spiega perché tante scoperte scientifiche importanti ci vengano dagli anziani. Non solo perché hanno accumulato negli anni un grande bagaglio di conoscenze e esperienze, ma perché queste vengono usate diversamente, con una libertà che sfida gli schemi e quindi innova, ri-crea.

Accettando i nuovi limiti dell’anzianità, ci liberiamo dal dover dimostrare quanto siamo ancora efficienti e capaci, ci rendiamo più disinibite, più disposte a rischiare, meno disposte a compiacere le aspettative altrui, meno dipendenti dall’approvazione e dai giudizi, e quindi capaci di rompere gli schemi e riscrivere le regole in modo innovativo.
D’altro canto, resistere al cambiamento o negarlo, aggrappandoci a modelli di comportamento troppo rigidi e convenzionali, ci fa male, ci fa sentire impotenti, lede la nostra autostima ed è spesso causa di ansia e depressione.
Jung diceva – e la cosa vale ancora – che “i frequentissimi disturbi degli anni adulti hanno tutti una cosa in comune: vogliono portare la fase giovanile oltre la soglia. (...) se porti nel pomeriggio la legge del mattino troverai ad aspettarti tanti guai (…)”, che si possono manifestare attraverso segnali psicosomatici, depressivi, ecc.

Quindi occorre accettare questa fase della vita, tanto esigente, spesso penosa, ma anche tanto interessante e potenzialmente ricca e creativa. E imparando a condividere le nostre esperienze, soprattutto quelle più difficili, riusciamo anche a relativizzarle e ci sentiamo meno sole, e più profondamente capaci di intendere e accettare il comune destino dell’umano.
Vorrei anche accennare a un altro aspetto che ostacola la nostra creatività: l’ABITUDINE. Senza rendercene conto, siamo tutti prigionieri delle abitudini. E non solo perché ci rassicurano, ci fanno comodo, fanno parte della continuità del nostro vivere, ma soprattutto perché le abitudini finiscono per diventare inconsce. E quindi, quando diventano inconsapevoli, ci tengono prigioniere, e ci impediscono di cambiare.
Ho trovato un buon esempio di questo meccanismo. Pensate alle vostre prime lezioni di guida, quando dovevate imparare quale pedale frenasse e quale era quello del gas. E poi bisognava inserire la marcia giusta, e, una volta partite, stare attente alle curve, alla segnaletica, e così via. Ora, che da un bel po’ avete imparato a guidare, tutte queste cose le fate automaticamente, senza pensarci. Procedete con il pilota automatico. Con le nostre abitudini, acquisite negli anni, facciamo la stessa cosa. Non ci rendiamo più conto dei nostri comportamenti, delle nostre difese, non riconosciamo neppure la ragione di certe nostre emozioni. Reagiamo con il pilota automatico, senza più chiederci se quello che facciamo corrisponda davvero a ciò che desideriamo, se i sentimenti che viviamo come scontati siano davvero i nostri sentimenti autentici, o se appartengono a rituali vuoti di significato, ecc.

Quando le nostre abitudini vengono sfidate, e nell’anzianità le occasioni abbondano, perché i cambiamenti sopravvengono sia da fuori che da dentro, dalle condizioni del mondo esterno, come da quelle del mondo interno, da corpo mente e psiche, allora rompere gli schemi non è più una scelta, ma una necessità quasi fisiologica.

Ci vuole davvero molta attenzione per capire quale sia l’abitudine di cui non ci rendiamo conto e che ci condiziona ad agire o reagire in modi disfunzionali: un esempio semplice e concreto che vale per molte? La nostra postura. Siamo abituate a camminare in un certo modo, a tenere le spalle troppo alte o troppo basse, ecc. Poi cominciano i dolorini, e le radiografie ci dicono che la colonna è storta, i muscoli rigidi, o quant’altro. Allora ci rendiamo finalmente conto che l’abitudine è diventata automatica, inconscia e, dannosa. E ci tocca, esercitando pazienza e molta attenzione, ri-creare andatura e movimenti.
Ma naturalmente ci sono comportamenti più difficili da stanare perché sono legati all’immagine che abbiamo di noi stesse, alla nostra identità. E anche queste sono diventate abitudine, si sono cristallizzate, non hanno seguito il dinamismo del nostro divenire. E proprio per questo o facciamo inutili fatiche per tenerle in vita, diventiamo rigide e insoddisfatte di noi stesse, oppure, come abbiamo già notato, cominciamo a interrogarci, a cercare di capire cosa l’insoddisfazione voglia dirci e quali cambiamenti esiga.

Ci vuole molta onestà per riconoscere verità a volte scomode: occorre sviluppare attenzione lucida e coraggio per sfidare la paura o anche la vergogna della scoperta. La nostra immagine non corrisponde a ciò che vorremmo. Spesso abbiamo ideali e aspettative riguardo a noi stesse che ci sono state trasmesse dall’educazione, da esempi inarrivabili, e che non ci appartengono. Ovviamente se siamo tendenzialmente giudicanti e severe faremo fatica a guardarci con un po’ di empatia e humor, ma se lo facciamo riusciremo a integrare aspetti nuovi che ci aiuteranno a vivere con più libertà e energia; se ne gioverà anche la nostra autostima perché sapremo radicarci meglio nel nostro essere autentico.

Le ansie, l’inquietudine, l’insoddisfazione, o anche la depressione che spesso sperimentiamo nell’anzianità, sono spesso legate alle resistenze al cambiamento che ci mantengono in uno stato di stagnazione. Sono questi i momenti in cui sperimentare qualcosa di nuovo ci può aiutare. Non occorre certo che si tratti di qualcosa di grandioso: a volte basta rompere un’abitudine che percepiamo come ripetitiva e: perché non decidere che una volta alla settimana ci si trovi con un’amica a mangiare una pizza? O si va al cinema da sole? O ci si iscrive a un corso di tango? O di filosofia? Sono infinite le piccole cose nuove che si possono fare: e quando si apre una porta, a volte se ne spalancano molte altre. E si comincia davvero a diventare strumento e misura del proprio cambiamento. Cioè a ri-crearsi!!!


Locarno, 26.10.17