Convegno 2015: Relazione di Bruna Martinelli

Le nonne di un tempo

di Bruna Martinelli, nonna, contadina, scrittrice |  Scuola Club Migros, Lugano – 1° ottobre 2015

 

Inizio a parlare di tante nonne a causa delle persecuzioni senza limite di questi e altri tempi terribili (Califfato e Plaza de Mayo). Per fortuna dalle nostre parti non ci sono questi orrori e noi nonne possiamo goderci la gioia di veder crescere bene i nostri nipoti. Anche se siamo sempre con le antenne rizzate perché sappiamo come per i giovani, soprattutto adolescenti, non sia facile affrontare la vita.

A me, quando ho tenuto tra le braccia la mia prima nipotina avevo quarantadue anni, è parso di diventare mamma un’altra volta. E così fu per tutti gli altri nipoti. Un tempo, almeno nei nostri villaggi, la famiglia era spesso formata da nonni, genitori, figli e zii che abitavano, se non sotto lo stesso tetto, non molto distante. Ora è diverso. I nostri figli spesso hanno formato una famiglia lontano da noi genitori e noi vediamo i nipoti molto meno di quanto vorremmo. Ricordo che assieme alla zia Luigina e Teresa, allo zio Ottavio e allo zio Luca c’era, nella nostra famiglia, la figura centrale della nonna Felicita, detta Pinota.

Nei mesi di settembre ottobre, verso gli anni trenta, noi, sei ragazzi nipoti di Felicita, stavamo con lei in montagna con le mucche e le capre tornate dagli alpi e anche alcune galline portate su con il gerlo e con le gambe legate perché non volassero via. Sei ragazzi tutt’altro che tranquilli, cugini fra loro, la più grande aveva dodici anni e il più piccolo cinque.

Lei, la nonna dominava su tutti. Assegnava i lavori da fare, rimproverava, insegnava e consolava i piccoli per le immancabili sbucciature alle ginocchia. Era severa, ma mai cattiva, ed era capace di gestire quel gruppo di ragazzacci come un caporale. Mi pare ancora di vederla. Piccola, magra con la pelle scura, arsa dal sole e dal vento con un naso forte che spiccava sul volto scavato. Si vestiva sempre con una gonna scura e ampia e con il grembiule legato alla vita. Sopra la camicia bianca o quasi bianca, con le maniche rimboccate, portava un corpetto allacciato con piccoli uncini. Calzava soltanto e sempre gli eterni peduli e in testa non mancava mai la pezzuola scura a nascondere la piccola crocchia grigia. Aveva le mani forti e nodose abituate a ogni attrezzo di lavoro e per quel che si poteva vedere, le gambe storte per il gran portare pesi. Così si presentava a noi e mai che noi avessimo il coraggio di disubbidire o di criticarla. Magari scantonare un poco, quello sì!

Lei era la prima ad alzarsi e l’ultima a venire a letto. Alla sera sbrigava le faccende e preparava gli arnesi da lavoro per il giorno dopo. Poi finalmente si sedeva. Levava dalla tasca la corona del rosario e “In nomine Patris et Filii et Spiritus Santus” pregava per il lavoro, la salute dell’anima e del corpo di tutta la famiglia e per l’eterno riposo a chi prima di lei aveva abitato quella cascina. Noi tutti, nel grande lettone, sul saccone riempito di profumate foglie secche di faggio, ci addormentavamo cullati da quel mormorio. Quando al mattino rotolavamo fuori dal letto semi addormentati e affamati lei aveva già munto mucche e capre. Sul tavolo all’aperto se era bel tempo o se no seduti sullo scrigno, o cassone, o sulla grande panca vicino al fuoco divoravamo le fette di pane o più spesso quelle della polenta del giorno prima messa a mollo nel latte con un goccio di caffè oppure la minestra della sera precedente. Dar da mangiare a così tante bocche affamate non doveva essere facile in una casa dove i viveri arrivavano una volta alla settimana. Non abbiamo mai sofferto la fame. C’era latte in abbondanza, burro, formaggio, uova, se il falco non era calato a rapire le galline, polenta, minestra di riso e latte, qualche volta pasta e raramente patate.

Siamo cresciuti così, anno dopo anno, una vita attiva. Era nostro compito condurre le mucche al pascolo, andare a cercare le capre che salivano sempre in alto, portar letame, far legna, ma ci divertivamo anche con le corse per i prati, con giochi come Mosca, Bandera, “È arrivato l’ambasciatore”, “O che bel castello” e con le discese veloci sui pendii con un asse a mo’ di slitta frenando con i piedi. Ricordo anche le recite di tragicommedie inventate dalla sorella più grande. Il palco era la sommità pianeggiante di un grosso sasso situato in mezzo al prato. Uno dei giochi da me preferito era la sfida di chi ce la faceva più volte a passare sotto la pancia delle mucche che pascolavano senza esser calpestata o colpita dalla pesante coda sporca di letame. Per diversi anni restammo in montagna con la nonna poi, a poco a poco noi ragazze prendemmo il suo posto nei lavori con le bestie e con la truppa che variava di anno in anno. I ragazzi cresciuti restavano in paese e andavano a “imparar mestiere” e venivano rimpiazzati dai piccoli, gli ultimi nati.

Poi un giorno la nonna fu trovata svenuta in campagna dove si era recata a lavorare. Collasso cardiaco dichiarò il medico. Lei si riprese, ma non fu più la stessa. Si lamentava in continuazione di noi nipoti, cosa che non aveva mai fatto. Si ammalò e adagio adagio si spense come una lampada che non aveva più olio. Aveva settantacinque anni.

Ho parlato della Pinota che per me fu una figura importante, pur con tutte le sue contraddizioni, come ogni persona. Per lei, ad esempio tutto o quasi era peccato, come guardarsi allo specchio, il giocare alle carte come “quelli delle osterie”, la vanità, lo spreco, anche quello di un solo boccone di pane, ma soprattutto lo stare con i ragazzi. Era il suo modo di educarci e le sono grata perché ci voleva bene.

Ho conosciuto nonne che picchiavano i nipotini creando dei ragazzi ribelli. So di una nonna che non accettò mai la nipote forse perché non era d’accordo sulla scelta della moglie fatta dal figlio, ma si attaccò quasi morbosamente al nipotino colmandolo di regali e coccole.

Ho conosciuto anche una nonna che lodava e ammirava i nipoti avuti da una figlia, mentre disprezzava e criticava quelli di un’altra figlia creando tensioni fra le due famiglie. Purtroppo ci sono anche genitori separati che proibiscono ai figli di frequentare i genitori dell’ex coniuge. Ci sono però anche storie belle di nonni che, dopo il divorzio di uno dei figli, accettano con gioia i figli nati da una nuova famiglia, insegando ai bambini ad amare l’eguaglianza. Ai nostri giorni si chiama “famiglia allargata”. In qualsiasi situazione di conflitto, rancore e ingiustizia non bisogna mai dimenticare che la cosa più importante sono i bambini che hanno bisogno di pace e amore per crescere.

La relazione è stata completata da passaggi dal suo libro

“La forza delle donne”, racconti – edizioni Pudelundpinscher

 

Nel suo secondo libro, Bruna Martinelli dedica i propri ricordi a varie donne del suo paese e abbozza così l'immagine di una «condition féminine» molto comune nel Ticino rurale e religioso della prima metà del Novecento: l'immagine di una donna che aveva valore solo se era sposata e sapeva svolgere ogni lavoro di cui c'era bisogno. «Attualmente si parla tanto di uguaglianza tra uomo e donna. Mi sta bene, la trovo giusta. Mia nonna avrebbe detto che il mondo era diventato matto; a sentire lei, le donne dovevano ubbidire, lavorare, risparmiare e mai, mai starsene con le mani in mano. Ho visto donne con i ferri da calza in opera anche quando andavano in montagna. Per loro c'erano i carichi più pesanti e i lavori più noiosi. Tante erano considerate poco più delle bestie nella stalla.» (Bruna Martinelli)

 

  Brossura, 196 pagine, 13.2 x 17.6 cm Testo italiano e traduzione tedesca (Andreas Grosz) Prefazione di Giancarlo Verzaroli Con fotografie storiche  ISBN 978-3-906061-04-7